giovedì 1 aprile 2010

Il Che Guevara Sconosciuto

Spietato e crudele. Responsabile del sistema di repressione di migliaia di dissidenti e oppositori. Ecco quel che non si sa, o non si vuol dire, di Che Guevara, compagno di lotta del dittatore comunista Fidel Castro e idolo di tanti pacifisti cattolici.
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"Secondo Il libro nero del comunismo, dal quale sono tratte queste informazioni, scritto da storici di sinistra, negli anni Sessanta, a Cuba sono state eliminate da 7.000 a 10.000 persone e altre 30.000 incarcerate."
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[Da "il Timone" n. 20, Luglio/Agosto 2002]


Verso le una e dieci del pomeriggio di domenica 9 ottobre 1967, il guerrigliero catturato - ha un berretto nero, un’uniforme militare assai sporca, una giacca azzurra con cappuccio, il petto quasi nudo, la camicia senza bottoni - sistemato provvisoriamente su una panca con i polsi legati, è ucciso, mentre ancora gli sanguina una ferita alla gamba destra. È finito da una scarica a bruciapelo di un mitra M-2. Le ultime parole che ha proferito nei confronti del sottufficiale dei Rangers governativi boliviani Mario Teràn sono state di sonante disprezzo: "Spara vigliacco, che stai per uccidere un uomo". Il guerrigliero cadde a terra con le gambe maciullate, contorcendosi e perdendo copiosissimo sangue. Altri due sottufficiali, entrati ubriachi nella stanza, spararono ciascuno un colpo, direttamente sul volto. Poco lontano, dal villaggio di La Higuera, dove sono giunti agenti della CIA, nei pressi della gola Quebrada del Yuro, un sacerdote domenicano d’una parrocchia vicina, padre Roger Schiller, arrivò trafelato a cavallo. "Voglio confessarlo, so che ha detto: sono fritto. Voglio dirgli: lei non è fritto, Dio continua a credere in lei".

Nel pomeriggio, il comandante del reparto boliviano , che è il maggiore Ayoroa, dispone che il corpo venga adagiato su una barella e gli sia legata la mandibola con un fazzoletto perché il volto non si scomponga. Un fotografo ambulante ritrasse i soldati e il suo sacerdote intento a lavare le macchie di sangue. L’elicottero volò allora in alto con il corpo sfigurato del guerrigliero. Al sottufficiale Teràn hanno promesso un orologio e un viaggio a West Point per frequentare un corso. Egli ha ucciso il comandante Ernesto Che Guevara Lynch, detto il Che, medico argentino che, con decreto governativo del 9 febbraio 1959, è stato naturalizzato cubano per servizi resi alla Rivoluzione. Da allora prese corpo la sentita e appassionante leggenda di un autentico santo laico.

"Dalle migliaia di foto, posters, magliette, dischi, video, cartoline, ritratti, riviste, libri, frasi, testimonianze, fantasmi di questa società industriale, il Che ci guarda attento. La sua immagine attraversa le generazioni, il suo mito passa di corsa in mezzo ai deliri di grandezza del neoliberismo. Irriverente, beffardo, moralmente ostinato, indimenticabile", scrive in un libro, edito in italiano nel 1997 con il titolo "Senza perdere la tenerezza", Paco Ignacio Taibo II. Lo scrittore, nato a Gijon in Spagna, coglie drammaticamente il vero.

La figura assieme virile e dolce del Che Guevara, il cui motto è appunto: "Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza", attraversa come un lampo la storia del secolo da poco passato: dalla nascita in una famiglia della buona borghesia alla giovinezza nomade e ribelle dall’epica avventura sulla Sierra Maestra con l’amico Fidel Castro, alle responsabilità nelle istituzioni di "Cuba libera ma assediata dall’embargo statunitense", fino al tragico eccidio sui monti della Bolivia ed alla immediata nascita di un mito eroico, unico nei nostri tempi. Lui è sempre al fianco di Fidel, sempre con un itinerario ideale diverso, cioè più organicamente comunista, come è stato osservato, nel 1967, dallo scrittore Carolos Franqui che abbandonerà Castro: "Doveva essere accecante se anche i più opachi, al suo passaggio, erano illuminati". Regis Debray, l’intellettuale francese oggi vivente che lo raggiunse in Bolivia, ha scritto molto su di lui e sulla sua condotta nel libro "Révolution dans la révolution" e "Loués saient nos seigneurs le Che", edito a Parigi da Gallimard nel 1996. Egli ha tracciato un disincantato e veritiero affresco sulle incarnazioni del castrismo, come "lunga marcia dell’America Latina" e sulle sue diverse varianti. Che Guevara materializza quella più irriducibile, severa, spietata e crudele. A mezza strada tra la violenza proto-bolscevica della Ceka e della GPU e la ferocia primordiale perpetrata nelle campagne cinesi dal maoismo. Per Debray, egli è "il più austero tra i praticanti del socialismo". È un medico, afflitto sin dal 1930 (era nato il 14 luglio del 1928 nella città di Rosario) da un inguaribile asma che lo farà soffrire nelle sue trasferte guerrigliere in Africa e in America Latina. Forse anche per questo egli è in grado di conoscere le tecniche più dolorose della punizione e segregazione per i dissidenti detenuti. Un’inflessibile ideologia con il corredo di una raffinata metodologia di persecuzione fisica.

Il Che, sin dalla clandestinità, polemizza duramente con i combattenti del "Llano", la pianura, contrapponendo alla loro malleabilità la durezza dio condotta osservata in montagna, nella Sierra. Attacca Castro per lo scarso rigore e lo definisce per un pezzo, sprezzantemente, come "il leader radicale della borghesia di sinistra", sensibile alle sirene del politicantismo. Egli è in linea pregiudiziale sempre "favorevole ai processi sommari" e di lui si ricorda l’ingiunzione perentoria ai ribelli venezuelani: "Prendete un fucile e sparate alla testa di ogni imperialista che abbia più di quindici anni". Al punto che Debray, riassumendo, lo caratterizza come un "dogmatico, freddo, intollerante che non ha nulla da spartire con la natura calorosa e aperta dei cubani". Intelligente e risoluto, generoso ed egualitario con i suoi, inflessibile con i nemici, comanda energicamente il secondo Fronte di Las Villas nella conquista dell’esercito ribelle a Cuba. Durante l’avanzata, nel 1957, si distingue per l’efferatezza con la quale interpreta il suo modo di essere rivoluzionario e di liquidare nemici e presunti traditori. Euti8mio Guerra, un guerrigliero9, viene accusato di avere avuto una collusione con il nemico, cioè con l’esercito del dittatore Fulgencio Batista, e immediatamente deferito ad un’improvvisata Corte marziale. Il Che anticipa il verdetto. Raccontò successivamente un suo commilitone detto "Universo": "io avevo un fucile e in quel momento il Che tira fuori una pistola calibro 22 e pac, gli pianta una pallottola qui. Che hai fatto? Lo hai ucciso. Eutimio cadde a pancia in su, boccheggiando".

Nell’anno della "liberazione" di Cuba che è il 1959, il Che viene convocato da Castro e il 7 settembre riceve l’incarico provvisorio di Procuratore militare. È una convulsa ma intensa fase della nuova Cuba che ne prefigura i caratteri sociali e civili, che deve giudicare i collaborazionisti con il passato regime, processarli e soprattutto toglierli dalla circolazione. L’anno dopo, ai primi di gennaio, si apre a Cuba il primo "Campo di lavoro correzionale" (ossia di lavoro forzato). È il Che che lo dispone preventivamente e lo organizza nella penisola di Guanaha. Trecento ottantuno prigionieri, arresisi alle truppe castriste sull’Escambray, vengono radunati, incarcerati a Loma de los Coches e tutti fucilati.

Jesus Carrera, anticastrista che è stato ferito negli scontri, chiede la grazia. Il Che gliela rifiuta ritenendolo un antagonista personale del capo Fidel. La stessa sanguinosa procedura viene riservata a Humberto Sori Marin per il quale aveva chiesto misericordia la madre. Sotto l’impegnativa e organica inclinazione del Che, prende corpo la "DSE". Il Dipartimento della Sicurezza di Stato, noto anche con il nome di "Direcciòn general de contra-intelligencia". Un dettagliato regolamento elaborato puntigliosamente dal medico argentino, fissa le punizioni corporali per i dissidenti recidivi e "pericolosi" incarcerati: salire le scale delle varie prigioni con scarpe zavorrate di piombo; tagliare l’erba con i denti; essere impiegati nudi nelle "quadrillas" di lavori agricoli; venire immersi nei pozzi neri.

Marta Frayde, già rappresentante di Cuba all’Unesco e, dopo i primi anni, incarcerata, ha descritto le celle riservate ai "corrigendi": sei metri per cinque, ventidue brandine sovrapposte, in tutto quarantadue persone in una cella. Le accuse nei Tribunali sommari rivolte ai controrivoluzionari vengono accuratamente selezionate e applicate con severità: religiosi, fra i quali l’Arcivescovo dell’Avana, Monsignor Jaime Ortega; adolescenti e bambini; omosessuali. La fortezza La Cabana di Santiago viene utilizzata come centro di smistamento. Il procuratore Guevara Lynch illustra a Fidel Castro e applica un "Piano generale del carcere", definendone anche la specializzazione. Vengono così organizzate le case di detenzione "Kilo 5,5" a Pinar del Rio. Esse contengono celle disciplinari definite "tostadoras", ossia tostapane, per il calore che emanavano. La prigione "Kilo 7" viene frettolosamente fatta sorgere a Camaguey: una rissa nata dalla condizioni atroci procurerà la morte di quaranta prigionieri. Il campo di concentramento La Cabanas ospita le "ratoneras", buchi di topi, per la loro angustia. La prigione Boniato comprende celle con le grate chiamate "tapiades", nelle quali il poeta Jorge Valls trascorrerà migliaia di giorni di prigione. Il carcere "Tres Racios de Oriente" include celle larghe un metro, alte un metro e ottanta centimetri e lunghe dieci metri, chiamate "gavetas". La prigione di Santiago "Nueva Vida" ospita cinquecento adolescenti. Quella "Palos", bambini di dieci anni; quella "Nueva Carceral de la Habana del Est", omosessuali dichiarati o sospettai. Ne parla il film su Reinaldo Arenas "Prima che sia notte", di Julian Schnabel uscito nel 2000.

Il Che lavora con strategia rivolta non solo al presente ma al futuro Stato ditattoriale. Nel corso dei due anni passati come responsabile della Seguridad del Estado, avendo come collaboratore Osvaldo Sanchez che era esperto principale comunista, si materializza la persecuzione contro la Chiesa. Pascal Fontanie, nel suo libro "America Latina alla prova", calcola che centotreuntuno sacerdoti hanno perduto la vita fino al 1961 nel periodo in cui Guevara era artefice massimo del sistema segregazionista dell’isola. Viene definito "il macellaio del carcere - mattatoio di La Cabana". Si oppone con forza alla proposta di sospendere le fucilazioni dei "criminali di guerra". Più che da Danton discende dall’incorruttibile, l’"incorruttibile" Robespierre. Quando ai primi del 1960 a lui viene assegnata la carica di Presidente del Banco Nacional, Fidel lo ringrazia con calore per la sua opera repressiva. Egli ne generalizza ancor più i metodi per cui ai propri nuovi collaboratori, per ogni minima mancanza, minaccia "una vacanza nei campi di lavoro di Guanahacabibes". Il medico argentino, il più coerente leninista dell’America Latina, il meno reticente delle proprie idee e propositi pratici, è l’autentico motore di una ideologia totalitaria e di una macchina penitenziaria statale. La sua azione, esplicitamente ispirata ad una concezione coercitiva, impersona, come egli scrisse: "l’odio distruttivo che fa dell’uomo un’efficace, violenta, selettiva, fredda macchina per uccidere".

Cronologia

14 luglio 1928. Nasce Ernesto Guevara Lynch, detto Che.
26 luglio 1953. Un gruppo di studenti attacca la caserma della Moncada. Uno dei capi, Fidel Castro, viene arrestato e condannato a 15 anni di prigione. Ben presto libero, raggiunge il Messico.
1955. In Messico, Che Guevara incontra Fidel Castro che si sta preparando a rientrare a Cuba.
Dicembre 1956. Fidel e Che Guevara sbarcano a Cuba. Guevara si fa subito notare per la sua durezza: un ragazzo, guerrigliero della sua unità, che ha rubato un po’ di cibo viene fucilato senza alcun processo.
7 Novembre 1958. A capo di una colonna di guerriglieri, Ernesto Che Guevara intraprende una marcia su L’Avana.
1 gennaio 1959. Il dittatore Fulgencio Batista si dà alla fuga.
8 gennaio 1959. Fidel Castro e i suoi barbudos entrano a L’Avana. Che Guevara riceve l’incarico di "procuratore" ed è lui a decidere delle domande di grazia. Subito le prigioni della Cabana, all’Avana dove esercita Che Guevara, e di Santa Clara diventano teatro di esecuzioni di massa. Vengono uccisi soprattutto ex-compagni d’arme, che si erano conservati democratici, di Fidel Castro e del Che. Si instaura la dittatura comunista.
Maggio 1961. Vengono chiusi tutti i collegi religiosi e le loro sedi confiscate. Secondo Il libro nero del comunismo, dal quale sono tratte queste informazioni, scritto da storici di sinistra, negli anni Sessanta, a Cuba sono state eliminate da 7.000 a 10.000 persone e altre 30.000 incarcerate.
17 settembre 1961. Vengono espulsi da Cuba 131 sacerdoti diocesani e religiosi.
9 ottobre 1967. Recatosi in Bolivia, Che Guevara non riceve alcun appoggio da parte dei contadini. Isolato e braccato, viene catturato e giustiziato.

Bibliografia

AAVV, Il libro nero del comunismo. Crimini, terrore, repressione, Mondadori, Milano 1998.
Armando Valladares, Contro ogni speranza. Dal fondo delle carceri di Castro, SugarCo, Milano 1987.
Federico Guiglia, Il sole nero. Dall’esilio cubano sette storie contro Fidel, Libri Liberal, Firenze 2000.
Jorge Valls, Mon ennemi, mon frére, Gallimard, Paris 1989.

venerdì 19 marzo 2010

LAOGAI... IL VOLTO FEROCE DELLA CINA COMUNISTA

(dal sito ufficiale della: Laogai Research Foundation Italia www.laogai.it)

Cosa significa la parola Laogai?

La parola LAOGAI è in realtà una sigla ricavata da “LAODONG GAIZAO DUI” e significa “riforma attraverso il lavoro”. I LAOGAI sono tuttora strettamente funzionali allo stato totalitario cinese per il doppio scopo di perpetuare la macchina dell’intimidazione e del terrore, con il lavaggio del cervello per gli oppositori politici e di fornire al regime un’inesauribile forza lavoro a costo zero. Per queste ragioni il sistema dei Laogai è in pieno sviluppo.

Il numero dei campi di lavoro e il numero dei detenuti è considerato “segreto di stato” in Cina

Al settembre del 2006 vi erano almeno 1045 Laogai in Cina. La Laogai Research Foundation pubblica un catalogo dei Laogai di cui è a conoscenza, un catalogo dei Campi: Il Laogai Handbook. L’ultima edizione è del 2008, che elenca ben 1422 campi Laogai attualmente attivi.

Rieducare attraverso il lavoro chi la pensa diversamente.

Una parte della grande struttura dei LAOGAI si chiama LAOJIAO (Laojiaosuo o rieducazione attraverso il lavoro). Il LAOJIAO è un sistema di “detenzione amministrativa” per cui si può essere imprigionati direttamente dalla polizia senza nessuna sentenza, fino a 3 anni. Il LAOJIAO è infatti, principalmente, usato per le persecuzioni contro i dissidenti, religiosi e credenti di tutte le religioni.

Il Governo Cinese ha recentemente comunicato una proposta di legge che riformera’ il sistema dei campi di lavoro forzato, LAOJIAO. Secondo Amnesty International, però, il tema della riforma della “rieducazione attraverso il lavoro” (LAOJIAO) è nell’agenda legislativa cinese da oltre due anni. Nel suo comunicato del 18 ottobre 2007, la stessa organizzazione ha chiesto al Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo di garantire che qualsiasi normativa sostituisca quella oggi in vigore sia perfettamente in linea con gli standard internazionali sui diritti umani, compresi il diritto a un giusto processo e la libertà dagli arresti arbitrari.

Purtroppo spesso le “riforme” proposte all’interno del regime cinese sono solo modifiche cosmetiche dirette alla “ricostruzione di immagine” del paese, che deve apparire “armonioso” in ogni suo aspetto. Infatti, secondo un articolo di Voice of Asia del 1° marzo 2007 Luo Gan, capo della Commissione Giustizia, ha confermato l’importanza di mantenere il sistema del LAOJIAO.

Il LAOJIAO è lo strumento prioritario di repressione contro il Falun Gong, una pratica religiosa cinese con elementi di confucianesimo, buddismo, taoismo ed esercizi fisici. Infatti, dal 1999 è in corso una durissima persecuzione contro i Falun Gong, che vengono arrestati e uccisi e i cui organi, principalmente il fegato, i reni e la cornea, vengono venduti a clienti cinesi, asiatici e occidentali per alti profitti. La stampa internazionale, il Congresso USA e numerosi politici hanno denunciato questi crimini. David Kilgour, ex segretario di stato canadese, e David Matas, avvocato, hanno pubblicato un rapporto sulla “Conferma di espianti di organi a praticanti del Falun Gong”. Questo rapporto è stato rivisto ed aggiornato nel gennaio 2007 .

Esecuzioni capitali (Attuamente 10.000 circa all'anno)
Oggi migliaia di persone, accusate spesso nel corso di processi sommari, sono condannate a morte in Cina mediante la fucilazione, eseguita di frequente davanti ad un pubblico appositamente convocato che include studenti universitari, scolaresche delle scuole medie e parenti dei condannati, cui inoltre spetta l’onere di pagare il costo delle pallottole usate contro i loro congiunti. Continua dai tempi di Mao Zedong l’uso di trasportare i condannati al luogo dell’esecuzione su autocarri scoperti. Tutti quelli che assistono debbono meditare sulle tragiche conseguenze cui conduce trasgredire la legge, giusta o ingiusta che sia.

Amnesty International e altre organizzazioni umanitarie internazionali segnalano da tempo questa orribile pratica. Nel Rapporto 2008 Amnesty International denuncia le migliaia di esecuzioni , l’aumento di iniezioni letali per uccidere i prigionieri e facilitare l’espianto di organi freschi, nonché gli alti profitti derivanti dalla loro vendita.

Il numero delle esecuzioni capitali è ancora considerato segreto di stato in Cina. Durante un’intervista all’Agenzia Reuters nel febbraio 2006, Liu Renwen dell’Accademia Cinese delle Scienze Sociali conferma che il numero delle uccisioni annuali è tra 8.000 e 10.000. Il sistema giudiziario cinese è approssimativo e corrotto, privo delle minime garanzie legali per gli accusati; a prova di ciò, nella stessa comunicazione della Reuters, si descrivono due casi: quello di un macellaio accusato e ucciso per avere assassinato una cameriera, successivamente ritrovata viva e vegeta, e la vicenda di un marito incarcerato 11 anni per l’assassinio della propria moglie, rintracciata in seguito viva e sposata a un altro uomo. Un rapporto dell’organizzazione internazionale Human Rights in China denuncia il caso del diciottenne Hugejileitu, ucciso nel 1996. La sua famiglia, venuta a conoscenza della testimonianza di un altro detenuto, aveva accusato la polizia di aver torturato il giovane. Nel 2005, quasi dieci anni dopo la sua morte, l’agenzia di stampa Xinhua informa che il vero assassino aveva nel frattempo confessato di essere l’autore dell’omicidio per cui Hugejileitu era stato accusato.

Ricordiamo che Manfred Nowak, l’inviato delle Nazioni Unite che ispezionò nel dicembre 2005 alcune pri¬gioni, ha denunciato l’uso continuo della tortura e chiesto al governo di Pechino di abolire le esecuzioni capitali per i colpevoli di crimini non violenti o di natura eco¬nomica. In un altro suo rapporto del 10 marzo 2006, ha denunciato anche le con¬fessioni estorte con la tortura.

Non soltanto le organizzazioni umanitarie e la stampa internazionale hanno sempre denunciato le esecuzioni capitali in Cina. Il Parlamento Europeo, nel febbraio del 2007, ha chiesto un’immediata moratoria sulla pena di morte e ha dichiarato che, su un totale di 5.420 esecuzioni (dati ufficiali), almeno 5.000 sono state realizzate in Cina, e cioè circa il 91% del totale mondiale di esecuzioni capitali. Anche il Parlamento Italiano durante la seduta del 12 dicembre 2006 ha condannato la mancanza dei principi fondamentali nel sistema giudiziario cinese e l’aumento del numero delle pene capitali in Cina.

Inoltre un membro dell’Assemblea del Popolo, il prof. Chen Zhonglin, ha dichiarato nel marzo 2004 che il numero di esecuzioni capitali in Cina è di circa 10.000 all’anno. In un comunicato del 9 febbraio 2005, Amnesty International ha affermato che si sta verificando un grande aumento delle esecuzioni capitali in Cina e la pratica del “colpisci duro”, che tende ad aumentare il numero delle esecuzioni durante i periodi delle festività, continua ininterrotta. L’organizzazione umanitaria ha dichiarato che almeno 200 esecuzioni sono state effettuate nelle due settimane precedenti l’inizio dell’anno lunare, il 9 febbraio 2005, e che almeno 650 altre uccisioni sono state riportate dalla stampa locale tra il dicembre 2004 e il gennaio 2005.

Perché si viene uccisi in Cina oggi? Nel 1989 i reati puniti con la pena di morte, previsti dal codice penale, erano venti, ora sono sessantotto. Tra questi ultimi: frode fiscale, contrabbando, traffico d’arte, violazione di quarantena se ammalati, reati per danni economici, apparte¬nenza anche indiretta ad “organizzazioni illegali”, ecc. L’allargamento dell’area dei delitti repressi con la punizione capitale non promette nulla di buono, considerando anche la superficialità dei tribunali, che celebrano processi privi di garanzie legali per gli accusati.

Ricordiamo il caso dell’uiguro Ismail Semed, ucciso il 9 febbraio 2007 dopo la condanna pronunciata dal Tribunale del Popolo della città di Urumqi, nella provincia dello Xiniang. L’accusa era quella di secessione, di ”voler dividere la patria”. Nello Xiniang, infatti, vive una minoranza di circa 40 milioni di persone di religione musulmana, continuamente perseguitata dal regime. La moglie di Ismail racconta, in un comunicato di Voice Free Asia che il marito, durante un breve incontro di pochi minuti prima di essere ucciso, le ha rivelato che la sua confessione era stata ottenuta con la forza e le raccomandava “di pensare ai figli e di educarli bene”. Lo stesso destino hanno sofferto Wang Zhedong, condannato a morte dal Tribunale di Yingkou per frode nel marzo del 2007, e Zhao Yanbing, operaio edile, condannato a morte dal Tribunale Popolare di Linfen nella provincia di Shanxi nel luglio del 2007. Ugualmente il Tribunale n. 1 di Pechino ha condannato a morte nel luglio del 2007 Zheng Xiaoyu, capo dell’agenzia cinese che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici. Nell’accusa di corruzione, a lui rivolta, per avere accettato denaro in cambio dell’approvazione di medicinali contraffatti, con il rischio di danneggiare l’immagine della Cina e provocare ripercussioni economiche negative per la finanza cinese, non si accennava affatto alla salute dei pazienti. La stampa internazionale si è occupata di questo caso. Un articolo del Washington Post ricorda che “mentre Mao considerava il denaro un nemico della rivoluzione, ora il denaro è la base della nuova ideologia”.
Di queste persone è giunta almeno notizia, ma degli innumerevoli altri?
In seguito all’aumentata pressione internazionale, il regime cinese ha approvato nel 2006 una legge secondo la quale dal gennaio 2007 tutte le esecuzioni capitali devono essere riviste e convalidate dalla Corte Suprema del Popolo perché ne sia assicurata la validità. Come descrive il recente rapporto di Human Rights in China, le nuove riforme e leggi introdotte dal regime comunista dall’ottobre 2006 al marzo 2007 prevedono la revisione di tutte le pene capitali da parte della Corte Suprema, il rifiuto di confessioni ottenute mediante la tortura e l’originale disposizione che i giudici della stessa Corte Suprema debbano, per principio, interrogare l’accusato. Quante corti supreme occorrerebbero in un paese con 1.300.000.000 abitanti?
Il nuovo principio adottato dal partito sarebbe di “uccidere meno educcidere con attenzione”. Tuttavia, come giustamente denuncia il rapporto, quale valore possono avere tali misure in un sistema dove l’attività di tutti i tribunali è diretta dal comitato legale-politico del partito comunista, da cui i giudici dipendono per la carriera, i salari e gli altri benefici; dove esiste il segreto di stato sulle procedure legali, sul numero delle esecuzioni, sulle prove e le motivazioni che hanno portato alla pena capitale; dove si usa la tortura per ottenere le confessioni; dove non esiste la minima garanzia di un processo equo e di presunzione di innocenza almeno fino a quando si è riconosciuti colpevoli; dove spesso gli avvocati della difesa sono intimiditi, picchiati, arrestati; dove l’ avvocato difensore non può interrogare i testimoni ? La risposta a questo interrogativo è intuitiva.
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PLASTIFICAZIONE DEI CORPI


Orrore: i fucilati dal regime ora sono mummie da show (da www.ilgiornale.it)


Pagate il biglietto e passeggiate nell’orrore. C’è un cadavere a cavallo, ha le braccia tese, le mani socchiuse. Le guardate da vicino. Una stringe il cervello dell’uomo, l’altra quello dell’animale. Fate un passo indietro, v’imbattete nel corpo ignudo di una ballerina, la pelle scorticata i muscoli tesi, le ossa sporgenti. Due metri più in là un busto inarcato le budella tese, lo stomaco tirato, gli addominali scolpiti, e nel pugno chiuso una palla di baseball pronta al lancio. In fondo una carcassa scuoiata si libra su un paio di pattini. Vorreste fuggire, ma a sbarrarvi la strada c’è quel carcame di donna vivisezionata dal seno all’addome, quel feto affacciato dalla finestra del suo utero reciso. Ci siete dentro e non è un film. A «Bodies the Exhibition» («Corpi , la mostra») spietata mostra di cadaveri plastificati tutto è macabramente reale. Così reale da sollevare inquietanti interrogativi sull’origine di quei venti reperti anatomici, tutti cinesi, tutti muscolosi, tutti di mezza età, tutti senza i segni di debilitanti malattie. E allora al disgusto s’aggiungono gli interrogativi. A chi appartenevano quei corpi? Come sono morti? Chi ha permesso di trasformarli in scorticate e plastificate mummie esposte a pagamento? Le domande innescano raccapriccianti sospetti quando il dottor Gunther von Hagens, inventore del processo capace di plastificare le spoglie mortali, ammette di aver ricevuto dalla Cina cadaveri con i segni dell’esecuzione. I sospetti s’avvicinano alla certezza quando un trafficante di cadaveri cinese ammette di vendere a 200, 300 dollari l’uno i resti dei condannati a morte.
Per seguire questi quattro passi nell’orrore bisogna incominciare da «Bodies the Exhibition» la mostra di cadaveri plastificati che ha attraversato le principali città americane ed è ora sbarcata a Vienna, Madrid e Barcellona. I venti corpi umani trasformati in perfetti e asettici modelli poliesterizzati vengono presentati dalla Premier Exhibitions, la compagnia quotata a Wall Street che detiene i diritti della mostra, come un esibizione dall’alto valore educativo. La mostra spiegano gli organizzatori «consente accesso a immagini e conoscenze normalmente riservate solo a personale medico professionista». Fin qui tutto vero. I cadaveri scuoiati e modellati nelle pose più disparate permettono di osservare tutti i particolari più reconditi del nostro corpo dal cervello all’apparato digerente, dai muscoli alle ossa. La perfetta conservazione è frutto della cosiddetta «plastinazione» l’evoluto metodo di mummificazione messo a punto a fine anni ’70 dall’anatomo patologo tedesco Gunther von Hagens sostituendo liquidi e grassi con incorruttibili polimeri. Il processo mantiene inalterato l’aspetto d’ogni singola cellula rendendo malleabile e modellabile il cadavere permettendo di mettere un corpo in groppa ad un cavallo morto o, come si vede in “007 casinò Royale”, di riunire tre scheletri intorno ad un tavolo da poker.
I guadi della Premier Exhibitions iniziano quando il dissidente cinese Harry Wu, espatriato negli Stati Uniti dopo 19 anni di lavori forzati, mette in dubbio l’origine dei 20 corpi ricordando di aver dimostrato l’esistenza di un contrabbando di organi prelevati da condannati a morte: «La Cina mette a morte più prigionieri di ogni altro stato al mondo e nessuno – denuncia Wu – conosce con esattezza né il numero dei condannati né il destino dei loro corpi». E Fiona Ma deputato californiano di origine cinese fa notare che nessuna famiglia cinese acconsentirebbe ad «esporre i resti di un proprio caro in quel modo».

mercoledì 17 marzo 2010

POP POT IL PIU' SINISTRO E TERRIFICANTE DITTATORE COMUNISTA DELLA STORIA...





Simbolo del
Partito Comunista Cambogiano


Oltre due milioni di vittime

La Cambogia è conosciuta principalmente per le tragiche vicende legate al periodo della dittatura del leader marxista Pol Pot che eliminò da 1,5 a 2 milioni di suoi compatrioti, quasi il 25% dell’intera popolazione cambogiana. Una delle prove di questo eccidio è rappresentato da uno dei tanti campi di sterminio creati dal despota, noto con il N. 8985, situato nei pressi di Choeung Ek, a 15 chilometri dalla capitale Phnon Penh, dove nei primi anni Ottanta sono stati riesumati centinaia di migliaia di resti umani, fra cui oltre ottomila teschi, molti dei quali spaccati (per risparmiare munizioni, i Khmer Rossi (Khmaey Krahom) di Pol Pot erano soliti eliminare le loro vittime con bastoni o machete). Ai margini dei campi, ancora oggi sorgono baraccopoli dove vivono migliaia di persone che hanno perso le famiglie, dove istruzione e diritti umani sono concetti totalmente aleatori, dove dilaga la criminalità e lo sfruttamento della manodopera.



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Pol Pot Pseudonimo di Saloth Sar (provincia di Kompong Thom 1925 - confine con la Thailandia 1998), uomo politico cambogiano. Fondatore del Partito comunista cambogiano, nel 1963 organizzò le formazioni guerrigliere dei Khmer Rossi, per opporsi in seguito al governo filoamericano instaurato da Lon Nol (1970). Deposto Lon Nol nel 1975 e divenuto primo ministro, avviò un progetto di "rieducazione" della popolazione cambogiana, che prevedeva la sua deportazione in massa nelle campagne e il lavoro forzato nei campi. Nei tre anni successivi, il suo regime dittatoriale provocò la morte di quasi quattro milioni di persone, sfinite da un lavoro massacrante, dalle malattie e dalla fame, o uccise durante le repressioni .

Deposto nel gennaio 1979 dai vietnamiti che avevano invaso la Cambogia, Pol Pot riuscì a mantenere il controllo di alcune regioni del paese e a condurre sanguinose azioni di guerriglia contro il regime. Lasciato ufficialmente il comando dei Khmer Rossi nel 1985, continuò a vivere in clandestinità facendo perdere le sue tracce. Nel 1996 alcune fonti annunciarono la sua morte, ma il dittatore fece la sua ricomparsa nel 1997, quando venne usato dai guerriglieri khmer come merce di scambio con il nuovo regime, da essi ora appoggiato. Ricercato per essere sottoposto al giudizio di un tribunale internazionale per crimini contro l'umanità, nell'aprile del 1998 fonti cambogiane diedero notizia della sua morte, avvenuta in una località della giungla ai confini con la Thailandia, dove Pol Pot era tenuto prigioniero dai suoi ex seguaci.

Khmer Rossi Movimento rivoluzionario fondato in Cambogia nel 1963 da Pol Pot, inizialmente in opposizione al governo del principe regnante Norodom Sihanouk. I contendenti si allearono nel 1970, quando un colpo di stato portò al potere il governo filostatunitense di Lon Nol. Deposto Lon Nol nel 1975, Pol Pot venne nominato primo ministro (1976), dando vita a un regime di terrore inteso a rifondare l'intera società cambogiana su base comunista e contadina: le popolazioni delle città furono deportate nelle campagne, furono abolite la moneta e la proprietà, vietata la libera circolazione delle persone, soppressa l'educazione scolastica, se non quella impartita nei "campi di rieducazione" dove circa quattro milioni di persone (il 25% della popolazione) persero la vita.

Il crescere dei contrasti con il vicino Vietnam riunito sfociò nell'invasione della Cambogia nel 1977 da parte delle forze vietnamite, con i khmer rossi costretti a rifugiarsi nella regione di confine con la Thailandia. Il ritiro degli occupanti dieci anni dopo non riportò la pace, poiché Pol Pot, rifiutando di riconoscere i governi di ricostruzione nazionale allora formatisi, continuò con i suoi uomini a praticare una guerriglia finalizzata alla piena riconquista del potere.

Nemmeno gli sforzi delle forze di pace statunitensi inviate in Cambogia per tentare un inserimento dei khmer nel sistema politico cambogiano in occasione delle elezioni del 1993 ebbero successo, e i guerriglieri continuarono a combattere il governo legittimo, mantenendo sotto il proprio controllo il 10% del territorio nazionale, sebbene a partire dal 1994 fossero avviate trattative per una pacificazione che culminarono con l'amnistia concessa dal re nel settembre del 1996. Vari gruppi khmer già nel corso del 1997 accettarono di uscire dalla clandestinità per prendere parte attiva alla realtà politica del paese, rinnegando l'autorità di Pol Pot.








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Douch (Il Boia di POL POT) parla per la prima volta:
(da Lastampa.it)

PHNOM PENH - Douch, il professore di matematica, per quaranta mesi sterminò tutta la classe intellettuale cambogiana con rigore scientifico, dentro il liceo di Tuol Sleng, nel cuore della capitale Phnom Penh, impegnato in un teorema personale di algebra degenerata. La sua voce è bassa, rispettosa, ma nello stesso tempo si snoda senza incertezze e soggezione. Sembra stia recitando un mantra, una preghiera buddista, invece incide la colonna sonora di un incubo ancora carico di interrogativi. E il suo aspetto mite, anonimo, quasi gracile, in nessun modo si concilia con il ruolo del carnefice. Tra il 1975 e l’inizio del 79, durante il regime tenebroso e maniacale di Pol Pot, due milioni di uomini e donne, quasi un terzo della intera popolazione, furono brutalmente eliminati. In mezzo a loro oltre diciassettemila cambogiani - quadri del partito, diplomatici, monaci buddisti, ingegneri, medici, professori, studenti, artisti della antichissima tradizione nazionale di musiche e danze - entrarono nella scuola trasformata in centro di tortura. Solo sei ne sono usciti vivi. Gli altri furono portati alla periferia della città e uccisi in una risaia. Di notte. Uccidere con il buio era una ossessione degli uomini con il pigiama nero, ovunque.
Douch è il soprannome scelto da giovane quando entrò nella guerriglia. Il vero nome è Kang Khek Ieu. Dopo la caduta dei khmer rossi il carnefice si era mescolato con i suoi compatrioti, tra campi profughi e villaggi di provincia, scomparso come tanti nel caos del dopoguerra, inghiottito dal nulla. Si era convertito al cristianesimo attraverso i missionari della Golden West Christian Church di Los Angeles. La sua vera identità è stata scoperta nel '98, e in breve tempo i soldati lo hanno arrestato. Dopo la morte di Pol Pot e di Ta Mok, il «macellaio» zoppo, resta il testimone più inquietante della follia politica progettata dai khmer rossi. Oggi è custodito nella prigione dell’Onu, a Phnom Penh, in attesa che si apra dopo trenta anni e infiniti rinvii il processo ai khmer rossi per genocidio. Ma per oltre otto anni, dopo la cattura, è stato in un carcere cambogiano, controllato dai militari del suo Paese.
Questa è l’unica intervista autorizzata in tutto il periodo di detenzione. Senza registratore, senza macchina fotografica, senza parlare direttamente con lui in francese o in inglese, ma con la mediazione obbligata di un interprete cambogiano. Il generale Neang Phat, segretario di Stato, e altri generali sono seduti nella stessa stanza, ascoltano e scrutano questo uomo indefinibile e inafferrabile, che alcuni di loro vedono per la prima volta. Douch è il ritratto perfetto della banalità e della innocenza del male.


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Quando era stato creato il centro di tortura dentro il liceo di Tuol Sleng?
«Il 15 agosto 1975, quattro mesi dopo l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh. Ma cominciò a funzionare effettivamente solo nel mese di ottobre».

Lei è stato il responsabile fino dall’inizio?
«Sono stato chiamato con l’incarico preciso di crearlo, di metterlo in funzione. Anche se non ho mai saputo perché la scelta fosse caduta su di me. Certo, prima del ‘75, quando i khmer rossi vivevano nella clandestinità, nella giungla, nelle zone liberate, io ero il capo dell’Ufficio 13, ero il responsabile della polizia nella zona speciale confinante con Phnom Penh».

Chi organizzava la vita nel centro, chi decideva i metodi degli interrogatori?
«Quelli che interrogavano venivano in parte dall’Ufficio 13, erano uomini che avevano lavorato con me, ex quadri dell’organizzazione. E poi c’erano quelli provenienti dalla divisione 703, militari, gente che usava violenza e brutalità. Si può dire che i carcerieri erano di due tipi. Quindi il perColore testosonale della prigione in gran parte non era reclutato da me».

Come si svolgeva la sua giornata in quel luogo?
«Ogni giorno dovevo leggere, controllare le confessioni. Facevo questa lettura dalle sette di mattina a mezzanotte. E ogni giorno, verso le tre del pomeriggio, mi chiamava il professor Son Sen, il ministro della difesa. Lo conoscevo da quando insegnavo al liceo. Era lui che mi aveva chiesto di unirmi alla guerriglia. Mi chiedeva come procedeva il lavoro».

E poi?
Arrivava un messaggero, un emissario, che raccoglieva le confessioni pronte e le portava a Son Sen. Lei sa che i khmer rossi avevano svuotato le città. Non c’era popolazione urbana, le scuole erano chiuse, gli ospedali chiusi, le pagode vuote, le strade vuote. Solo pochissime persone potevano muoversi. Questi messaggeri erano gli unici collegamenti tra un ufficio e un altro. La sera non dormivo a Tuol Sleng. Avevo varie case, e per ragioni di sicurezza dormivo ogni notte in un luogo diverso».

Lei ha avuto momenti di incertezza, dubbi, sentimenti di ribellione mentre sterminava tutta la classe intellettuale del suo paese?
«Per capire quel mondo, quella mentalità, lei deve tenere presente che la pena capitale è sempre esistita in Cambogia».

Anche nei bassorilievi dei templi di Angkor Wat ci sono scene di massacri orrendi, ma erano state scolpite molti secoli fa.
«Certo i capi dei khmer rossi avevano studiato alla Sorbona a Parigi, non erano selvaggi incolti. Ma a Tuol Sleng comunque c’era una convinzione diffusa e tacita, che non aveva bisogno di indicazioni scritte. Io, e tutti quelli che lavoravano in quel luogo, sapevamo che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente, eliminato con un lavoro progressivo, non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte».

Sopra di lei qualcuno chiedeva il suo parere?
«Quei metodi non mi convincevano da quando lavoravo all’Ufficio 13. Ma allora, se vuole, c’era il pretesto della lotta rivoluzionaria, della clandestinità, l'idea di neutralizzare le spie infiltrate, o quelle che potevano essere spie. Poi quando è cominciato il lavoro a Tuol Sleng ogni tanto chiedevo ai miei capi: ma dobbiamo usare tutta questa violenza? Son Sen non rispondeva mai. Nuon Chea, il Fratello numero due nella gerarchia del potere, che stava sopra di lui, invece mi diceva: non pensare a queste cose. Personalmente non avevo risposte. Poi con il passare del tempo ho capito: era Ta Mok (considerato da tutti il più sanguinario dei khmer rossi) che aveva ordinato di eliminare tutti i prigionieri. Vedevamo nemici, nemici, nemici dappertutto. Quando scoprii che nella lista delle persone da eliminare c'era anche Von Vet, il ministro dell’economia, rimasi veramente sconvolto, scioccato».

Lo interrompe con rabbia il generale Neang Phat, fino a quel momento composto e taciturno. Si toglie le scarpe, le calze, gli mostra i segni delle torture che ha ancora oggi sulle gambe, a distanza di oltre trenta anni. «Eravamo quattromila uomini nel mio gruppo, siamo sopravvissuti in quattro. E per salvarci siamo dovuti scappare oltre confine. Voi invece avete continuato a torturare ed uccidere». Tacciono gli altri militari. Tace l'interprete. Suo padre era l’ambasciatore cambogiano in Cina, il Paese grande protettore di Pol Pot. Fu richiamato in patria e morì a Tuol Sleng, amministrato da quel piccolo uomo a piedi scalzi che adesso gli sta davanti. Douch risponde al generale, la sua voce riprende fiato, si esprime in modo concitato. Poi congiunge le mani, si piega in avanti, nel gesto dei monaci buddisti, sul viso si disegna un sorriso. In Cambogia e in molte regioni d'Oriente sorridere è un gesto di dolcezza, di cortesia, ma anche di ambiguità, di imbarazzo a volte di autentica perfidia. Questa stanza rettangolare, silenziosa, pulita, bene ammobiliata, è piena di incubi. Fuori è una bellissima giornata di sole e di clima mite.

Che cosa provava davanti a quel numero crescente di vittime che lei contribuiva ad alimentare?
«Ero spinto in un angolo, come tutti in quel meccanismo, non avevo alternativa. Nella confessione di Hu Nim, il ministro dell’informazione, uno dei grandi dirigenti khmer, anche lui arrestato, c’era scritto che la sicurezza in una certa zona era garantita, bene assicurata. Ma Pol Pot, il Fratello numero uno, il capo di tutto, non era soddisfatto per questa affermazione, era troppo normale, bisognava sospettare sempre, temere qualcosa. E quindi arrivava la solita richiesta: interrogateli ancora, interrogateli meglio».

Che significava solo una cosa, nuove torture.
«Succedeva così. Per esempio nel caso di mio cognato. Lo conoscevo bene, si erano creati sinceri legami di parentela, ma dovevo egualmente eliminarlo, sapevo che era una brava persona ma invece dovevo fingere di credere a quella confessione estorta con la violenza. Così per proteggerlo non avevo analizzato con troppo rigore quelle dichiarazioni. E in quella stessa occasione i superiori avevano cominciato a non avere più fiducia piena in me. Contemporaneamente non mi sentivo più sicuro».

In concreto cosa era successo?
«Un giorno mi telefonano alle cinque di mattina. Quello per noi non era un orario normale. Mi dicono che sono convocato per una riunione nell’ufficio dei messaggeri. Come ho detto prima quello era un centro molto importante nel sistema di potere creato da Pol Pot, erano gli unici che potevano muoversi. Nemmeno i diplomatici delle pochissime ambasciate rimaste aperte avevano libertà di movimento. Mandavano qualcuno in strada, chiamavano il soldato che stava lì vicino, quello ascoltava e poi andava a riferire».

Una impossibilità totale di movimento.
«Erano state eliminate le comunicazioni telefoniche nel Paese, non esisteva più il servizio postale. Tutte le direttive arrivavano e tornavano indietro attraverso questi messaggeri, questi corrieri, nelle strade vuote una persona veniva notata subito».

E allora quel giorno della telefonata?
«Alle cinque di mattina prendo una motocicletta e vado vicino alla stazione ferroviaria, appunto dove si trovava quell'ufficio. Vedo una luce accesa in una casa. Ho pensato che fosse arrivata anche per me l’ora di essere eliminato. Trovavano sempre qualche accusa infondata. E invece lì mi dicono: deve venire da voi un messaggero, quando arriva arrestatelo e poi cominciate con gli interrogatori».

Lei ha mantenuto il suo incarico fino all'ultimo. Era un esecutore perfetto?
«Obbedivo, chi arrivava da noi non aveva possibilità di salvezza. E io non potevo liberare nessuno».

Fino a quando ha continuato a funzionare il campo di Tuol Sleng?
«Fino al sette gennaio 1979, quando le forze di liberazione cambogiane appoggiate dai vietnamiti hanno conquistato Phnom Penh. In quel momento il mio superiore era Nuon Chea, il Fratello numero due».

Non esisteva un piano per l’emergenza, non c’era il timore che ormai gli oppositori avessero forze sufficienti per far cadere il regime?
«Non c’era alcun piano in caso di fuga, di ritirata. Organizzammo tutto sul momento. Eravamo trecento uomini a Tuol Sleng. Tutti insieme ci dirigemmo a piedi verso la stazione della radio, che a quel tempo era in una zona piuttosto periferica. E da quel punto ci dividemmo in due gruppi, ognuno per la sua strada».

Da quel momento lei scompare dalle cronache cambogiane, si perdono le sue tracce. E un giorno si converte al cristianesimo. Cosa la porta a quella decisione?
«Mi sono convinto che i cristiani sono una forza, e che questa forza può vincere il comunismo. Al tempo della guerriglia io avevo venticinque anni, la Cambogia era corrotta, il comunismo era pieno di promesse, io ci credevo. Invece quel progetto è completamente fallito. Sono entrato in contatto con i cristiani nella città di Battambang, con la Golden West Christian Church, con il pastore Christopher LaPelle».

Sembra un nome francese.
«No, è un cambogiano. Si chiama Danath La Pel. Ha adottato quel nome per diffondere meglio il messaggio di Cristo nel mondo. All’inizio degli Anni 80 si è trasferito in America. E nel ‘92 è tornato in Cambogia, per aiutare i suoi compatrioti a trovare Cristo».

Quindi lei non segue più gli insegnamenti del Bhudda, è un cristiano?
«Sì».

E padre Christopher conosceva la sua vicenda, il suo ruolo a Tuol Sleng?


«All’inizio no, però dopo la conversione ho raccontato tutto».

Gli altipiani dell’Indocina sono stati il santuario di Pol Pot, gli stessi luoghi quaranta anni dopo ospitano adesso le chiese dei missionari cristiani.
«Significa che anche altri hanno fatto la mia scelta».

Lei oggi è pentito, ma tutte quelle migliaia di vittime, quella violenza con metodi primitivi, quelle menzogne trasformate in verità?
«Se uno cerca la responsabilità, e i diversi gradi di responsabilità, io dico che non c’erano vie di fuga per chi entrava nella macchina del potere ideata da Pol Pot. Solo ai vertici conoscevano la vera situazione del Paese, ma i quadri intermedi non sapevano. E poi c'era quella ossessione della segretezza. Certo lei mi chiede se non potevo ribellarmi, almeno fuggire».

Appunto.
«Ma se tentavo di fuggire loro avevano in ostaggio la mia famiglia, e la mia famiglia avrebbe subito la stessa sorte degli altri prigionieri di Tuol Sleng. La mia fuga, la mia ribellione non avrebbe aiutato nessuno».

Oggi non c’è un khmer rosso, anche tra i capi di quel regime, come Khieu Samphan o Jeng Sary, che ammetta di avere avuto colpe, responsabilità. Eravate tutti codardi allora, o siete tutti bugiardi oggi?
Dalla bocca di Douch non esce alcuna parola. Dal fondo della sala qualcuno insistentemente dice che il tempo a disposizione è scaduto, che è arrivata l’ora del pranzo per il prigioniero. Il pretesto più banale, più burocratico, per interrompere il racconto del carnefice. Douch, il seguace di Pol Pot, e oggi seguace di Cristo, congiunge le mani, si inchina, e si allontana. La scodella di riso è pronta. L’ora della giustizia per il genocidio della Cambogia invece aspetta da trenta anni.

domenica 14 marzo 2010

GULAG... TERRORE SOVIETICO - ITALIANI INTERNATI

Gulag in russo: ГУЛАГ - Главное управление исправительно-трудовых лагерей"Glavnoe Upravlenie Ispravitelno-trudovykh LAGerej", "Direzione principale dei campi di lavoro correttivi" - spesso scritto GULag) era il ramo della Polizia dell'interno e servizio di sicurezza sovietico che costituì il sistema penale dei campi di lavoro forzato. Benché questi campi fossero stati pensati per criminali di ogni tipo, il sistema dei Gulag è noto soprattutto come mezzo di repressione degli oppositori politici dell'Unione Sovietica.
Le assurde quote di produzione, la brutalità, la fame e la durezza di condizioni furono le principali ragioni dell'alto tasso di mortalità dei Gulag, che raggiungeva in molti campi anche l'80% nei primi mesi, i detenuti erano spesso costretti a lavorare in condizioni disumane. A dispetto del clima brutale, non erano mai adeguatamente vestiti, nutriti, trattati medicalmente in modo adeguato.
Il numero di prigionieri crebbe abbastanza gradualmente dal 1930 (176.000) al 1934 (510.307), quando crebbe più rapidamente fino all'impennata del 1938 legata alle purghe (1.881.570), per poi diminuire durante la seconda guerra mondiale a causa dei reclutamenti nell'esercito (1.179.819 nel 1944). Nel 1945 tornò a crescere fino al 1950, raggiungendo il valore massimo (circa 2.500.000) che rimase pressappoco costante fino al 1953.
I flussi di entrata e di uscita dai campi erano molto consistenti; il numero complessivo di detenuti fra il 1929 e il 1953 è di circa 18 milioni. Nell'ambito più ampio dei "lavori forzati", si devono aggiungere circa 4 milioni di prigionieri di guerra, 700.000 detenuti nei campi di smistamento ed almeno 6 milioni di "confinati speciali", cioè Kulaki e altri contadini deportati durante la collettivizzazione, per un totale di 28.700.000.
Il numero di morti è ancora oggetto di indagine: una cifra provvisoria è 2.749.163 . Tale cifra non tiene conto delle esecuzioni comunque legate al sistema giudiziario (le sole esecuzioni per motivi politici sono 786.098), dei circa 600.000 Kulaki morti durante la collettivizzazione, né dei decessi successivi al periodo di detenzione ascrivibili alle dure condizioni di vita .
Secondo Nicolas Werh, storico francese del CNRS di Parigi, nel libro "Storia della Russia nel Novecento" alle pagine 318-9 si legge testualmente: «Le stime del numero di detenuti nel Gulag alla fine degli anni trenta variano tra i 3.000.000 (Timasheff, Bergson, Wheatcroft) e i 9-10.000.000 (Dallin, Conquest, Avtorkhanov, Rosefielde, Solzenicyn). Gli archivi del Gulag, confermati dai dati dei censimenti del 1937 e del 1939, dai documenti dei ministeri della Giustizia, dell'Interno e della Procura generale, danno una cifra di circa 2.000.000 di detenuti nel 1940 (circa 300.000 nel 1932, 1.200.000 all'inizio del 1937) a cui si aggiungono più di 1.500.000 deportati. Il numero cumulativo di ingressi nel Gulag durante gli anni 1930 diventa, tenuto conto della alta rotazione dei detenuti, di circa 6.000.000 di persone». Sempre nello stesso libro a pagina 416 si legge: «Come testimoniano gli archivi del Gulag, recentemente riesumati, gli anni 1945-53 conobbero un forte aumento del numero dei detenuti nei campi di prigionia e nelle colonie di lavoro del Gulag (passarono da 1.200.000 a 2.500.000 tra il 1944 e il 1953) e del numero di "deportati speciali" (1.700.000 nel 1943; 2.700.000 nel 1953).
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ITALIANI NEI GULAG:
da www.gulag-italia.it)
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Durante gli anni Trenta il Terrore staliniano colpì duramente le comunità straniere che vivevano in Unione Sovietica e, fra queste, anche quella italiana conobbe l'esperienza della persecuzione e della deportazione nei lager. Sospettati, nella maggior parte dei casi, di attività antisovietica e di spionaggio, alcune centinaia di italiani, per lo più emigrati politici e giunti in URSS negli anni Venti, morirono fucilati dopo processi sommari o subirono lunghe sofferenze nei campi di lavoro forzato. A questa vicenda di dolore e di morte si aggiunse, negli anni della seconda guerra mondiale, la dura esperienza della deportazione e del lavoro coatto nelle colonie dell'NKVD per gli italiani che vivevano a Kerč', in Crimea, questi ultimi discendenti di famiglie pugliesi trasferitesi in Russia sin dal XIX secolo.
Nel 1956, dopo il XX Congresso del PCUS, anche gli italiani colpiti delle repressioni staliniane furono riabilitati. Tra di essi molti erano ormai morti, pochissimi erano stati liberati. Ancor più rari furono i casi di coloro che riuscirono a tornare in Italia. Qui la memoria delle vittime italiane del GULag rimase a lungo dimenticata, complice l'ostinato silenzio del Partito comunista italiano che preferiva non ricordare le responsabilità dei propri dirigenti e di Togliatti, presenti a Mosca negli anni Trenta. In aggiunta a ciò, l'impossibilità, sino agli inizi degli anni Novanta, di accedere agli archivi sovietici rendeva difficoltosa la ricostruzione di quegli eventi.
A partire dal 1992, grazie alla possibilità di accedere al materiale documentario conservato negli archivi russi (peraltro progressivamente ridotta negli ultimi anni), si è potuti giungere alla prima ricostruzione completa, basata su fonti archivistiche, della storia delle vittime italiane dello stalinismo.
A tal fine, ricerche specifiche sono state condotte al Gosudarstvennyj Archiv Rossijskoj Federacii, l'Archivio Centrale della Federazione Russa, dove, nel Fondo degli incartamenti processuali, sono raccolti 120.000 fascicoli personali di arrestati nella regione di Mosca provenienti dalla Direzione moscovita dell'FSB (ex KGB), che ne comprendeva 300.000. Il passaggio dei fascicoli dall'FSB di Mosca al GARF è quindi ancora in corso, cos? come le pratiche per la riabilitazione dei condannati. Sempre al GARF è conservato anche l'Archivio della Croce Rossa Politica ("fondo Peškova"), fra le cui carte si è ritrovata un'interessante documentazione sul caso di diversi italiani arrestati a Mosca come ostaggi nel 1919 e in seguito liberati proprio per l'intervento di questa organizzazione, attiva a Pietrogrado e a Mosca fra il dicembre 1917 e l'agosto 1937.
Al RGASPI (Rossijskij Gosudarstvennyj Archiv Social'no-Političeskoj Istorii, Archivio Statale Russo di Storia sociale e politica) è stato possibile consultare le carte della Terza Internazionale e delle sue sezioni, compreso il Partito comunista italiano, quelle dei segretariati Ercoli, Pjatnickij, Dimitrov, Manuil'skij e della segreteria dell'IKKI (Ispolnitel'nyj Komitet Kommunističeskogo Internacionala, Comitato Esecutivo dell'Internazionale Comunista), i fondi del MOPR, della KUNMZ e della Scuola leninista, e parte dei materiali sulle Brigate Internazionali. ? stato possibile un parziale accesso anche agli Archivi della Procura della Repubblica Federale Russa, che hanno concesso una serie di estratti della documentazione conservata nei fascicoli personali degli italiani repressi.
Oltre che negli archivi di Mosca, sono state svolte ricerche presso alcuni archivi periferici del Ministero degli Interni, che conservano la documentazione relativa ai detenuti nei lager delle rispettive regioni. E cos? si sono trovate tracce di detenuti italiani negli archivi di Magadan, Krasnodar, Chabarovsk, čeljabinsk, Vorkuta, Voronež, Odessa e Sinferopoli: importante, quest'ultimo, soprattutto per la storia della comunità di Kerč'. E, oltre a quelli di Russia e Ucraina, anche gli archivi di altre repubbliche ex sovietiche, come Azerbajdžan, Georgia e Uzbekistan, hanno fornito testimonianze su italiani arrestati con le solite imputazioni di attività antisovietica e spionaggio.
Particolarmente preziosa è stata la collaborazione offerta dal Centro Studi "Memorial" di Mosca e dalle sue filiali sparse in tutta la Russia, i cui ricercatori e archivisti da anni si occupano di raccogliere materiali sui martiri dei lager staliniani. Molto importante è stata infine, per quanto riguarda le fonti russe, la pubblicazione dei cosiddetti "martirologi" e "libri della memoria", elenchi accompagnati da brevi profili biografici delle vittime "riabilitate" delle repressioni, suddivisi in genere per regione o per categoria sociale. L'edizione di tali volumi (circa 100 finora) è stata curata in questi anni dal Centro Studi "Memorial" e da altri istituti di ricerca sulle repressioni staliniane. Fra i pi? importanti, anche dal punto di vista delle informazioni sugli italiani, citiamo i martirologi del Poligono di Butovo (quattro volumi pubblicati finora), della Kommunarka e del cimitero di Vagan'kovo, tre località nei dintorni di Mosca dove furono fucilati e sepolti in enormi fosse comuni decine di migliaia di condannati dei processi politici svoltisi nella capitale. Ma anche nei "libri della memoria" di Chabarovsk, Jaroslavl', Kaluga, Leningrado, Lipeck, Magadan, Nižnij Novgorod, Ossetia del nord, Repubblica dei Comi, Rostov, Sverdlov, Tomsk e Ufa sono stati trovati nomi e biografie di italiani.
Specifiche indagini sono state infine condotte presso gli archivi italiani e, in particolar modo, presso l'Archivio Centrale dello Stato di Roma, il Ministero degli Affari Esteri, la Fondazione Istituto Gramsci e la Fondazione Piero Gobetti. Sono stati inclusi in questa ricerca:
i discendenti degli italiani che emigrarono nella Russia zarista nel corso del XIX secolo.
i cittadini dell'impero austro-ungarico di nazionalità italiana
gli italiani emigrati in URSS negli anni Venti e Trenta costretti in larga parte ad assumere, dopo il 1932, la cittadinanza sovietica
i cittadini sovietici arrestati in base ai legami di parentela con italiani.
i soldati italiani dell'ARMIR che, accusati di reati comuni, passarono dalla giurisdizione del GUPVI a quella del GULag, perdendo il loro status di militari.
I nuovi materiali d'archivio permettono la ricostruzione di una serie di vicende biografiche personali prima del tutto sconosciute o comunque lacunose. Di molti italiani, infatti, si supponeva o si sapeva che erano stati arrestati al tempo delle "purghe" staliniane, talvolta si aveva notizia della loro riabilitazione, ma si ignoravano il percorso politico e professionale in Unione Sovietica, la destinazione dopo l'arresto e le circostanze esatte della morte. Di alcuni si sono ricostruiti dati anagrafici pi? precisi, o la vera identità nel caso di militanti conosciuti solo con il nome di copertura. E molti sono i nomi del tutto nuovi, a cui si aggiungono quelli delle 150 famiglie di Kerč' deportate in Kazachstan del Nord e in Siberia, rinvenuti negli archivi di Sinferopoli o grazie alle testimonianze dei sopravvissuti.
Tutto il materiale bibliografico e archivistico che è stato raccolto in Russia e in Italia durante questa ricerca è conservato presso la Fondazione Feltrinelli di Milano. Dove è stato possibile, sono stati fotocopiati i fascicoli personali conservati negli archivi russi, comprendenti foto, note caratteristiche, atto di condanna a morte, atto di riabilitazione, lettere dei famigliari.





Mappa del terrore GULag


mercoledì 10 marzo 2010

CIRCA 10.000 ITALIANI TRUCIDATI DAI COMUNISTI SLAVI NELLE FOIBE

SCHEMA DELLA FOIBA DI BASOVIZZA: 500 Metri Cubi di corpi infoibati
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Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell’Istria che fra il 1943 e il 1947 sono gettati, vivi e morti, quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani comunisti slavi si accanirono contro gli italiani. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Li considerano “nemici del popolo”. Ma la violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano di nuovo contro gli italiani. A cadere dentro le foibe ci sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Lo racconta Graziano Udovisi, l’unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba. È una carneficina che testimonia l’odio politico-ideologico del comunismo slavo e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra l’Italia e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Nel febbraio del 1947 l’Italia ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute alla Jugoslavia. Trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in Italia una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo dalla Jugoslavia, da un paese comunista alleato dell’URSS, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è, del resto, la ragione per cui il PCI non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il PCI a lasciar cadere l’argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci, la stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati “cittadini di serie B”, e non approfondisce la tragedia delle foibe. Per quasi cinquant’anni il silenzio della storiografia e della classe politica avvolge la vicenda degli italiani uccisi nelle foibe istriane. È una ferita ancora aperta “perché, ricorda ancora Sabbatucci, è stata ignorata per molto tempo”. Il 10 febbraio del 2005 il Parlamento italiano ha dedicato la giornata del ricordo ai morti nelle foibe. Inizia oggi l’elaborazione di una delle pagine più angoscianti della nostra storia.
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